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Paolo Rumiz: La scala del grande vecchio
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Tratto da “la Repubblica”, 10 agosto 2003
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ASIAGO - E'
lunga come il purgatorio, scura come il temporale, la scala che
ti porta al grande vecchio della montagna, lassù sull’Altopiano
di Asiago. Quattromilaquattrocentoquarantaquattro gradini,
ripidi da bestie, faticosi già a nominarli. Partono dalla Val
Brenta, sotto picchi arcigni, nel punto dove la valle - per chi
viene da Bassano - sembra spaccarsi in due, all’altezza di un
paese chiamato Valstagna, con la sua muraglia di vecchie case a
filo d’argine. L’erta prende la spaccatura di sinistra e brucia
in un lampo 810 metri dislivello. Si chiama «Calà del Sasso», ed
è una delle opere più fantastiche delle Alpi. Sconosciuta,
ovviamente, agli italioti. Per capire Mario Rigoni Stern e i
suoi libri non devi andarci in auto. Devi sudare, muovere le
chiappe. E di tutte le intorcicate strade che collegano
l’Altopiano al resto del mondo devi scegliere questa. La più
segreta, la più bella, la più diretta, la più alpina. Serviva a
calare il legname in fondovalle, per farlo navigare fino a
Venezia. Un fiume di pietra, quasi una pista di bob, affiancata
da scalini, da dove i legnaioli controllavano i tronchi,
invertendone la direzione a ogni tornante. Te ne accorgi subito,
appena cominci a salire, che la Calà del Sasso è fatta per
scendere. E tu la fai all’incontrario. Ti addentri nella Val
Frenzéla (un tempo Freiental, nel dialetto tedesco di Asiago)
coperta di muschi e umidità, traversi foreste di felci,
ombrellifere, rampicanti e subito pensi: se fosse in Francia,
questo luogo sarebbe indicato da tutte le parti, sommerso di
dépliants, inondato di iperboli. La più lunga scala delle Alpi,
figurarsi. Superlatif, formidable, unique au monde. Ci avrebbero
messo musei con l’epopea dei legnaioli, percorsi didattici con
la storia dei tronchi che scendono lungo il Brenta fino
all’Arsenale, e quella del carbone che arriva per chiatta a
Rialto. Ma non siamo in Francia. Siamo in Italia, e Valstagna è
un luogo dove nessuno si ferma, dove respiri l’abbandono. C’è
afa, ronzano mosche, il cielo brontola sugli strapiombi, quest’estate
boia non finisce mai, ma si sale lo stesso, sono gli scalini a
portarti con regolarità, cinquanta centimetri di passo, quindici
di dislivello. Ci metti due ore: il tempo, dicono qui, di
recitare «quattro rosari». La fatica è tutta nell’anima, perché
la scala, appena restaurata con i soldi della Comunità Europea,
è già in semi-abbandono, coperta di pietre ed erbacce. Dice a
ogni metro il divorzio degli italiani dalle loro antiche strade.
Povero Paese senza memoria, il nostro. Troppo pieno di storia
per avere cura delle sue pietre. La Svizzera del Veneto ti si
schiude all’ultimo scalino, ed è un mondo a sé, col suo
labirinto di pascoli lontani dal mondo, le antiche leggi
comunitarie, i Sette Comuni federati da sette secoli e lasciati
liberi dalla Grande Venezia. Per arrivare dal vecchio devi
camminare ancora due ore, passare sotto il Monte di Val Bella
lungo un sentiero che si chiama Via Tilman, infilarti tra la
frazione di Bertigo e Malga Costalunga, puntare sull’immenso
sacrario della Grande Guerra, evitare come la peste la
conurbazione di Asiago già infestata di balconcini tirolesi e
palchetti con gli animatori, girare a Nord verso la Val di Nos e
chiedere alla gente. Tutti sanno dove abita il Mario. Sbuca
dalla finestra del primo piano, ride a vedermi con sacco e
scarponi, pare ancora un ragazzino con quella foresta di capelli
matti. Scende subito, è curioso di sapere di questa traversata
alpina, vuole dare i consigli giusti. Apriamo la carta su un
tavolino sotto casa. «Vai - mi dice - vai sulle Alpi liguri,
selvagge, solitarie, con gli ulivi fino a mille metri». Poi
racconta della strada degli emigranti, che da qui prendevano il
treno per Ulma, Germania, e la distanza la calcolavano col
prezzo del biglietto a partire da quella città. «Son stà do
marchi al de là del Ulm», dicevano, sapendo che più lontano
andavano meglio era. Meno italiani in giro, meno concorrenza.
Dunque più salario. «Pioverà» dice Mario, e mostra l’uccello in
gabbia. E' immobile, si chiama Crociere delle Pinete e si muove
solo col bel tempo. Giorni fa, racconta, un fulmine ha accoppato
sei vacche su in malga. Mi porta sull’orto. Ha le rape rosse per
fare il Barszcz, la zuppa delle grandi pianure slave, ricordo
della campagna di Russia. «La ricetta ucraina è con tre tipi di
carne, crauti freschi, aglio, cipolla. Alla fine ci metti lo
yogurth, in assenza di panna acida. E un po' di paprika». Si
muove tra gli ortaggi come tra i suoi libri. Porri, radicio
triestin e radicio de testa, insalata catalogna, coste,
cavolfiori, carote, zucchine, tegoline. E le verze, che i
caprioli vengono a rosicchiare ogni mattina all’alba. Andiamo a
camminare, Mario mette gli scarponi, ha ancora il diavolo in
corpo. A ottantadue anni è andato a caccia di camosci, la prima
volta. E siccome ha una mira bestiale, ne ha fatto secco uno al
primo colpo. Del bosco sa ogni segreto, è una cosa vivente che
gli serve a misurare la febbre della Terra. Quest’anno caldo,
racconta, gli abeti sono in esuberanza, «guarda lassù come son
pieni di stròbili e polline». Le allodole sono salite sopra i
1500 metri, le senti dal trillo dell’alba che non c’è più,
attorno al paese. Le zecche sono sparite, le vespe germaniche
pure. I funghi pochi, le vipere tante. E troppe ortiche,
lamenta. Il segno dell’abbandono dei pascoli. «Se la politica
non aiuta le malghe, le erbacce arriveranno fino alla piazza di
Asiago». Malga Zevio, le trincee raccontate da Emilio Lussu.
Mario si arrampica, entra nelle postazioni austriache, conosce
ogni metro di questo luogo maledetto dove ragazzi di vent’anni
si ammazzarono per venti mesi per conquistare venti metri. «Mio
zio Mosé combatté qui e non volle ritornare. Mai». Col bastone
mostra l’Ortigara, la Malga Ongara, il Grappa, i luoghi dove i
fanti sardi andarono al massacro. Diavoli rossi, li chiamavano,
perché sbucavano di notte col coltello. «Quando la guerra finì,
la gente trovò ancora scheletri sui reticolati». Sembra
incredibile che la natura abbia ricolonizzato ogni centimetro di
questo luogo, dove ogni pietra è un rudere.
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Paolo Rumiz |
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Premio San Vidal 2003
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Premio Latisana per il Nord-Est
2003
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Paolo Rumiz, inviato speciale del
"Piccolo" di Trieste e editorialista di
"la Repubblica", segue dal 1986 gli
eventi dell’area balcanico-danubiana. Ha
vinto il premio Hemingway nel 1993 per i
suoi servizi dalla Bosnia e il premio
Max David nel 1994 come migliore inviato
italiano dell’anno. |
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